Biagio

Attraverso la chiesa in punta di piedi. Sento parlare in sagrestia. Spero di incontrarlo.

Sono alla Missione Pace e Carità, voluta fortemente da Biagio Conte. Nata nel 1991, sotto i portici della Stazione Centrale della città di Palermo, accoglie tutti quelli che rimangono indietro e ai margini della nostra società. Oggi sono circa 800 le persone, suddivise in tre comunità, che ricevono assistenza dalla Missione.

Biagio Conte, l’uomo che ha deciso di allontanarsi dalla famiglia per fare l’eremita; l’uomo che da giovane andava  in discoteca, vestiva firmato, amava le marche costose.  L’uomo che poi non ce l’ha fatta più. I suoi amici non lo capirono e dissero ai genitori di curarlo. ‘Avrà la depressione’ dicevano. E, invece, stava male per una società egoistica ed indifferente.

Decide di accogliere i barboni nei pressi della stazione centrale di Palermo, si veste con un saio, lotta per dare un tetto ed un pasto caldo agli emarginati. Percorre il lungo e largo l’Italia per diffondere il suo messaggio di fede.

Oggi sono nella sua Missione. Entro in sagrestia un po’ titubante. Lui si occupa di argomenti seri, di assistenza ai poveri, dà il suo sostegno morale  e materiale agli emarginati, mentre io sono qua a parlare del mio progetto fotografico: rispetto al “suo” progetto, il mio non vale nulla, è aria fritta. Lui salva vite umane, io faccio fotografie. Il confronto non regge.

Una donna parla con lui. Poi tocca a me. Mi presento. Gli parlo del mio progetto e dico che non si può parlare di Palermo Capitale della Cultura senza parlare della Cultura dell’accoglienza, a cui lui ha dedicato la sua vita  intera . Lui ascolta in silenzio. Poi gli si illuminano gli occhi. “Sai? Nessuno mai mi aveva incluso tra le persone che fanno di  Palermo Capitale della Cultura “.

Ho  visto i suoi occhi brillare. Di una luce unica. Di gioia. Di dolcezza. Della forza di essere dalla parte dei giusti.

E’ fatta. Con l’entusiasmo di un bambino preparo il set, con il mio immancabile fondale nero. Lui va via e poi ritorna.

Lo faccio mettere davanti il fondale. All’inizio è un po’ rigido, titubante.

“Pensa  a cose belle! Pensa alle cose belle che hai fatto in questi anni!”, dico.

Si mette le mani al volto. Poi le toglie e la luce sul viso è tornata. Sorride.

“Grazie! Ecco perché ci siamo incontrati oggi! Per fare allontanare da me i pensieri negativi ed accogliere solo ciò che è gioia!”

Faccio pochi scatti, mi bastano. Non voglio approfittare. Poi ripongo la macchina; mi dedica del tempo per parlare. Le sue parole trasudano fede, forza di volontà e tanta umanità. Qualità uniche di cui l’uomo ha sempre più bisogno. Le sue parole danno solo la gioia e la speranza che non siamo soli.

Ci salutiamo abbracciandoci come vecchi amici. Ripongo l’attrezzatura e vado via. In lontananza lo vedo che discute con un uomo. L’umanità ha un’altra volta bisogno di lui.

Elisa Parrinello, figlia di Vito

 

Non ero mai stato al Teatro Ditirammu, lo confesso, però ne conoscevo la fama di scrigno della cultura palermitana. Un piccolo teatro, con 52 posti a sedere, nato grazie alla creatività e volontà degli artisti Vito Parrinello e  di sua moglie Rosa Mistretta, cantante folk. Ho iniziato il mio progetto nel mese di aprile 2017 ed in testa di fotografare l’uomo che andava in giro, in particolari, occasioni con la sua “Lapa” (Ape per il resto d’Italia) per Palermo,  cantando musiche d’altri tempi, riviste e riproposte.  Ma ahimè non ho fatto in tempo. La città intera nel mese di giugno ha avvertito questa grande perdita.

Il teatro è situato nel quartiere storico della Kalsa. Attraverso un grande portone ed entro in un cortile interno. E’ come passare una linea di confine: fuori c’è il chiassoso presente, con tutte le sue modernità ed insicurezze; dentro è come tornare indietro nel tempo, ritrovare una “Sicilia bedda” di altri tempi, di elegante decadenza.  In un angolo c’è la famosa Lapa; vedo l’insegna, i poster raffiguranti Vito e sua moglie, e le luminarie.

Elisa Parrinello mi accoglie sorridente. Dai suoi modi decisi traspare da subito la sua grande energia. E’ l’anima del teatro. Lo era prima ma più che mai lo è adesso.

Mi confessa che è un po’ imbarazzata per il ritratto che andremo a fare. Lei che balla, danza in pubblico, lei che recita, lei che niente e nessuno possono fermare, è intimidita da una macchina fotografica e teme che il risultato non rispecchierà la sua personalità, come è accaduto altre volte.

Mi parla della sua infanzia in teatro, del rapporto con i suoi genitori, e della sua famiglia di artisti, ognuno col proprio carattere, e soprattutto del rapporto speciale con suo padre, dei loro dialoghi, della loro complicità. Le brillano gli occhi, il dolore è fresco, ma continua a parlare dell’amore per papà e quanto deve a lui . E poi gli aneddoti, le battute, i ricordi. Tutto sempre col suo grande sorriso, velato però da un po’ di tristezza.

Ascolto lei e mi sembra di conoscere Vito, anche se non l’ho mai visto. E me ne dispiaccio.

Il teatro all’interno è anche un piccolo museo delle meraviglie. Racchiude tanti ricordi di questa famiglia di artisti,  e tanti simboli di una Sicilia a volte dimenticata. Non sono un’amante delle tradizioni ad ogni costo, ma sono convinto che il passato ci appartiene e fa parte della nostra identità culturale. Siamo anche il risultato del nostro passato, c’è poco da fare, nel bene e nel male.

E’ un teatro in miniatura. Per un attimo chiudo gli occhi. Tra quelle mura sembra di sentire la chitarra di Vito e voce di Rosa.

Troverete Elisa e il fratello Giovanni al teatro di Ditirammu, a cantare e suonare di amore per Palermo e per la Sicilia. Uno scrigno nel cuore di questa città.

 

Letizia

Letizia Battaglia ©mario virga

A dir il vero sono un po’ emozionato. Sto incontrando la storia della fotografia in persona. Di lei ho tanto sentito parlare, sin da quando iniziai a fotografare da professionista all’inizio degli anni ’90, un anno prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Allora era già una leggenda e, anche se non inseguiva più i morti ammazzati, c’era per noi, giovani esordienti e professionisti affermati,  la consapevolezza che il suo lavoro sarebbe stato impossibile da replicare in futuro da nessun altro fotografo.

Letizia Battaglia mi accoglie con gentilezza ma anche praticità. E’ un pomeriggio di luglio e fa caldo.

Poso le attrezzature e mi siedo, desideroso di parlare con lei.

“Ma tu, che fotografo sei?” La domanda è tanto semplice quanto a bruciapelo e mi mette praticamente a nudo. Brevemente illustro il mio percorso, dal lavoro per le agenzie fotogiornalistiche, alla specializzazione nello still life, all’insegnamento di fotografia.

Poi ha voluto sapere del progetto “Un ritratto per Palermo Capitale della Cultura”.

Parliamo un po’ delle persone e che ho fotografato e quelli che, secondo lei, dovrei fotografare. Chissà quanti personaggi ha conosciuto nella sua carriera e quanti ne ha fotografati. Lei che non si fermava davanti a niente, fotografa per “L’ORA” nella Palermo degli anni ’70 e ’80, esempio di tante generazioni di giovani fotografi. Lei che ha fatto un sacco di mostre e ha vinto tanti premi. La prima donna europea a ricevere nel 1985, il Premio Eugene Smith, a New York.

Parliamo un altro po’. Ma fa caldo e mi spinge ad andare al dunque.

“Dai, fammi questo ritratto! Come mi devo mettere?”

Velocemente apro il fondale nero, compagno ormai di tanti scatti, tiro fuori flash e ombrello. Sono pronto.

“Ferma così”, le dico. E’ seduta; sul tavolo c’è la sua Pentax K1000 che porta dovunque, un posacenere stracolmo di mozziconi. In mano tiene una sigaretta.

Sta al gioco. Si mette un po’ in posa. Scatto. Cambia posizione. Scatto. Poi la faccio alzare. Prende la sua macchina e l’appoggia al cuore. Scatto.

Ecco, ho appena fotografato la storia della fotografia.

 

 

Oggi si prova “Il trionfo di Rosalia”

Salvo Piparo mi ha accolto per il suo ritratto durante le prove de “Il trionfo di Rosalia”, un omaggio alla Santuzza in vista del Festino.

Gli attori coinvolgono una cinquantina di interpreti tra i quali cittadini di quartieri come l’Albergheria, la Guadagna e Bonagia e i ragazzi delle case di accoglienza giunti in Sicilia con gli ultimi sbarchi.

Sono andato un paio di volte ad assistere. Si provano le scene drammatiche della peste in città, nonché altre più allegre che coinvolgono un re-bambino o anche la scena del mercato, in cui le “vanniate”  vengono esibite in tutta la loro musicalità. In religioso silenzio osservo lo spettacolo che diverrà, con tutte le incertezze dei personaggi che, prova dopo prova e giorno dopo giorno, mettono in opera uno spettacolo. Salvo Piparo, con pazienza infinita, ascolta, spiega, consiglia e guida gli attori, coinvolgendoli sempre di più in questo riadattamento di un testo di Salvo Licata.

Mi pongo lo scrupolo di scattare, perché il click della fotocamera può essere fastidioso, me ne rendo conto. Ma siamo durante le prove e prevale, come al solito, il gesto di mettere il mirino all’occhio e premere il pulsante. La luce scrive più volte.

Devo dire che li ho invidiati un po’, questi attori. Recitare, calarsi nella parte, piangere, ridere, soffrire, far vivere dei personaggi, veri o immaginari dev’essere davvero emozionante. Gli attori non sono professionisti ma li vedo molto presi e dopo diverse prove Salvo tira fuori quello che lui vuole, come l’espressione, la mimica, l’intonazione.

Durante una pausa chiedo a Salvo di mettersi vicino alla porta d’ingresso del locale. La bella luce calda di giugno entra dall’apertura, mentre la parete è già nera di suo.

“Salvo, guardami!”.

Sta al gioco. In quel viso c’è la sua storia; negli occhi i suoi sentimenti. Ecco che la luce scrive ancora. L’attimo è fermato. Mi basta.

Rimango per un altro po’, il tempo di fare qualche altro scatto durante le prove. Poi vado via.

Chissà perché ma spesso mi sovviene ciò che mi scrisse una volta il compianto Ando Gilardi, fotografo e critico, quando gli mandai alcune foto per stuzzicarlo:

“Sono belle sì!” mi scrisse “ma sono solo fotografie”.

Non è il caso di oggi. Ho realizzato delle fotografie ed un ritratto di una gran bella persona.

Ritratto ad una leggenda

Avevo il desiderio di ritrarre Mimmo Cuticchio da diversi anni. Un po’ per lo sguardo penetrante, molto fotogenico, ma anche perché è un combattente, proprio come molti dei suoi pupi. L’occasione si è presentata e lui è stato subito disponibile.

Mi accoglie in via Bara all’Olivella.

“Attento a non calpestare il fondale!” mi avverte. A terra un enorme fondale, bellissimo, enorme, era steso ad asciugare. L’avvertimento mi ha inibito un po’, temendo di fissare per sempre l’incontro non per un bel ritratto ma per una impronta della mia scarpa permanentemente fissata sulla faccia di uno dei paladini dipinti.

Parliamo per un po’. Mi racconta delle difficoltà degli anni ’70, quando l’opera dei pupi era considerata qualcosa di vecchio, da eliminare. Certo, negli anni ’70 anche i ragazzi di Palermo ascoltavano i Led Zeppelin, figuriamoci se andavano all’Opera dei pupi. Per i ragazzi di ogni generazione tutto è facilmente etichettabile come fuori moda. Sognavano l’America ad occhi aperti e non vedevano lo scempio che si stava compiendo intanto in città.

Chissà quante volte ha pensato di chiudere, mentre animava i suoi pupi, raccontando di guerre, tradimenti e amori,  col teatro semideserto. Poi man mano però egli cambia anche il racconto, dando nuova vita ai personaggi con storie nuove.

Ma il vero paladino è lui, Mimmo. I saraceni contro cui combattere sono stati i vari politici e potenti che si sono susseguiti ed hanno amministrato la città, promessa dopo promessa, non curanti di fatto del patrimonio culturale che rappresentava l’Opera. Proprio come uno dei suoi cunti, mentre con la spada serviva fendenti in aria e batteva il ritmo, egli ha combattuto contro i draghi dell’indifferenza, dell’incuria, dell’oblio.

Ha combattuto per il suo progetto di mantenere viva una tradizione che rischiava di morire; ha spettato, ha avuto pazienza, non si è arreso. E la storia di questa città gli ha dato ragione.

Oggi egli è ancora qua, nel suo Teatro in via Bara all’Olivella, a parlare di audaci imprese di cavalieri e principi, di amori e lacrime, di eroismo e viltà.

Non c’è bisogno di aprire il mio diabolico fondale pop up. Un fondale nero già pronto mi aspetta in fondo al teatro. Mimmo si mette in posa, prima con un paladino e poi senza. Faccio qualche scatto. Gli faccio vedere sul display il risultato. Si vede molto serio, con folta barba bianca; intona quindi: “Bradamante!” a voce alta e poi sorride.

Ecco, ho appena fotografato una leggenda.