Master of Cello

 

 

Giovanni Sollima mi aspetta davanti all’ingresso del Real Teatro di Santa Cecilia, come concordato. Ha con se due violoncelli nelle rispettive custodie: un Francesco Ruggeri del 1679 e uno della liutaia bolognese Ezia di Labbro e dipinto da Giosetta Fioroni. Sono entrambi molto belli, ma rimarrebbero due pezzi di legno senza un cuore che li facciano vibrare. Dopo i convenevoli di rito entriamo in teatro.

Il Real Teatro di Santa Cecilia è per Palermo il tempio del jazz, grazie alla Fondazione The Brass Group, unico Ente in Italia che promuove e gestisce un complesso orchestrale permanente. E’ ricco di storia ed  è un ottimo posto anche per fare uno shooting in tema musicale.

Giovanni Sollima è un vero virtuoso del violoncello. Qualcuno dei personaggi incontrati in occasione de “Un ritratto per Palermo” mi aveva raccomandato di ritrarlo; ed oggi eccoci qua, a fotografare una star della musica. Persona straordinaria  e compositore fuori dal comune, comunica attraverso una musica unica nel suo genere, dai ritmi mediterranei, con una vena melodica tipicamente italiana, ma che nel contempo riesce a raccogliere tutte le epoche, dal barocco al “metal”. E soprattutto è di Palermo. Mi racconta a grandi linee la sua vita da concertista e come l’Europa gli ha dato grandi soddisfazioni.

“Com’è  il Presidente?” chiedo.  “Una persona amabile e tranquilla” risponde. Mi riferisco al concerto del 2 giugno fatto proprio al Quirinale davanti al Presidente della Repubblica ed  Alte Cariche dello Stato. Il finale in lingua araba della sua composizione “L.B. Files”  credo abbia sorpreso un po’ tutti, anche il Presidente.

Sistemo le luci. Lui sfodera per primo il violoncello del 1600. Suona.

“Bella acustica.” dice. Dolci note si diffondono in tutto il teatro.

Alle volte lo fermo per fare in modo che fissi l’obiettivo, anche se è davvero un peccato interromperlo.

Qui mi rendo un po’ conto dei limiti della fotografia, arte silenziosa, di pensiero, di riflessione. Registro con la fotocamera la luce: fermo il gesto, l’espressione, l’energia di un attimo. Ma le emozioni, si possono registrare?

Le note di un violoncello non faranno mai parte di una  stampa fotografica.

Ma le emozioni rimarranno tutte segretamente racchiuse nel mio cuore.

 

 

 

Letizia

Letizia Battaglia ©mario virga

A dir il vero sono un po’ emozionato. Sto incontrando la storia della fotografia in persona. Di lei ho tanto sentito parlare, sin da quando iniziai a fotografare da professionista all’inizio degli anni ’90, un anno prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Allora era già una leggenda e, anche se non inseguiva più i morti ammazzati, c’era per noi, giovani esordienti e professionisti affermati,  la consapevolezza che il suo lavoro sarebbe stato impossibile da replicare in futuro da nessun altro fotografo.

Letizia Battaglia mi accoglie con gentilezza ma anche praticità. E’ un pomeriggio di luglio e fa caldo.

Poso le attrezzature e mi siedo, desideroso di parlare con lei.

“Ma tu, che fotografo sei?” La domanda è tanto semplice quanto a bruciapelo e mi mette praticamente a nudo. Brevemente illustro il mio percorso, dal lavoro per le agenzie fotogiornalistiche, alla specializzazione nello still life, all’insegnamento di fotografia.

Poi ha voluto sapere del progetto “Un ritratto per Palermo Capitale della Cultura”.

Parliamo un po’ delle persone e che ho fotografato e quelli che, secondo lei, dovrei fotografare. Chissà quanti personaggi ha conosciuto nella sua carriera e quanti ne ha fotografati. Lei che non si fermava davanti a niente, fotografa per “L’ORA” nella Palermo degli anni ’70 e ’80, esempio di tante generazioni di giovani fotografi. Lei che ha fatto un sacco di mostre e ha vinto tanti premi. La prima donna europea a ricevere nel 1985, il Premio Eugene Smith, a New York.

Parliamo un altro po’. Ma fa caldo e mi spinge ad andare al dunque.

“Dai, fammi questo ritratto! Come mi devo mettere?”

Velocemente apro il fondale nero, compagno ormai di tanti scatti, tiro fuori flash e ombrello. Sono pronto.

“Ferma così”, le dico. E’ seduta; sul tavolo c’è la sua Pentax K1000 che porta dovunque, un posacenere stracolmo di mozziconi. In mano tiene una sigaretta.

Sta al gioco. Si mette un po’ in posa. Scatto. Cambia posizione. Scatto. Poi la faccio alzare. Prende la sua macchina e l’appoggia al cuore. Scatto.

Ecco, ho appena fotografato la storia della fotografia.

 

 

Due parole su Palermo Capitale della Cultura

 

Ogni volta l’incontro con uno dei personaggi che ritraggo è un’incognita. A volte precede l’incontro un messaggio, oppure una telefonata, senza che io li abbia conosciuti personalmente e ogni volta mi chiedo: “Chissà se sono stato convincente. In fondo sono pressoché uno sconosciuto che espone un’idea”. Ecco, se c’è un’altra cosa che mi ha aiutato nel contatto iniziale e che  li accomuna, oltre l’amore per Palermo, è l’apertura mentale e la curiosità. Mettersi nei panni dell’altro e cercare di capire, senza pregiudizi. Persone che hanno un vissuto in nome dell’arte, alla ricerca del bello e anche di se stessi.

Ho sempre trovato persone disponibili e con le quali sono nate delle chiacchierate davvero amabili, con tanto di caffè fatto per l’occasione, proprio come un incontro con amico. Ciò nonostante mi chiedo però cosa pensino realmente quando mi vedono arrivare, armato di stativi e fondale pieghevole, e quando, dopo la chiacchierata, mi vedono trafficare col suddetto fondale che si apre in modalità pop-up.

La sessione fotografica dura generalmente poco perché non c’è bisogno di scattare tante fotografie, se si hanno le idee chiare. E poi non voglio far pentire di tanta disponibilità i miei ospiti.

Con Gigi Borruso ho approfittato della splendida luce proveniente da una finestra che si affacciava sulla splendida via Maqueda. Però quel tipo di  luce da sola non basta: per fare un ritratto ci vuole anche un’altra luce, quella degli occhi della persona da ritrarre. Ecco come nasce un ritratto per Palermo Capitale della Cultura.